"Tic tac, tic tac, tic tac...
Fu su per giù al duemilacentottantaquattresimo tic tac che inziò a scendermi una goccia di sudore dalla fronte giù giù fino attraversando tempia, guancia, collo per infrangersi sul collo del dolcevita nero che indossavo. Cercai con lo sguardo Steve, ma un pò per la poca luce, un pò perché di sicuro il suo di sguardo non cercava il mio, fatto sta che i miei occhi non trovarono alcun conforto. Tic tac, duemilacenottansei, tic tac, duemilacentottantasette...
Ci incontrammo al baretto dietro la stazione, quello del siciliano, quello più squallido del quartiere e forse della città; non penso di averlo visto mai completamente vuoto il bar di Salvo. Magrebini e tunisini l'avevano battezzato luogo di incontro, di scambio di opinioni e di bevuta soprattutto. Nonostante gli insulti di cui lo stesso Salvo li omaggiava in continuazione, una birra, un cicchetto non gli era mai negato, col benestare del caro Allah. Siciliani, calabresi, napoletani e pugliesi ne avevano fatto una sorta di bisca neanche tanto clandestina, anche se ogni volta, la partita a carte diventava un pretesto per litigi che a loro volta parevano più pretesto per dar mostra delle più colorite espressioni dialettali. Le puttane, non le escorte nè le prostitute, le puttane procacciavano lì clienti o almeno recuperavano qualche drink grazie all'eccitazione alcolina di magrebini, tunisini, siciliani, calabresi, napoletani e pugliesi. E poi le macchinette e le tv che alternavano Barbara D'Urso a signorine discinte. E io, che affogavo nell'alcool la mia noia sentendomi orgoglioso di non farmi problemi a condividere certe scene nonostante la mia provenienza borghese.
Persi anche il conto dei tic tac. Iniziai allora nevroticamente a grattarmi avambraccio, bicipide, collo, petto, coscia, polpaccio, come se la lana, il velluto, qualsiasi cose infastidisse la mia pelle ormai umidiccia. Steve alzò la testa, incrociò finalmente il mio sguardo, aggrottò la fronte e fece un gesto deciso e rapido con la testa. Smisi di muovermi, tirai il fiato, presi dalla tasca il passamontagna e lo infilai.
Apparse una sera, col suo fare sicuro, quasi presuntuoso. Arrivò, si sedette accanto a me al bancone, ordinò del whisky, mi distolse con una pacca dall'abituale riflessione da bar, e mi inziò a parlare dell'impressione che gli aveva fatto la città. Per farla breve in poco tempo siamo diventati amici. Io non ne avevo nè ne cercavo, lui non ne aveva ma ne aveva bisogno, soprattutto per avere una guida della città. Dal baretto iniziammo a frequentare i pub, dai pub le discoteche, io che seguivo lui, lui che mi coinvolgeva nei suoi scanzonati corteggiamenti, impavide discussioni, dissenate serate. Si chiama Stefano, ma da tutti si fa chiamare Steve.
I signori Marmolata erano tornati, era il momento di agire. Uscimmo dallo stanzino che poi era la scarpiera della signora. Con passi felpati andammo verso il salone da dove si sentivano arrivare le voci. Muovendoci guardai per un attimo la pistola che avevo in mano. Non avevo mai avuto una pistola in mano, neanche alla fiere di paese dove mi portavano i nonni da ragazzino. Non so se sarei riuscito ad usarla, Steve mi diceva sempre che non sarebbe servita, che serviva a fare scena, che avrebbe pensato a tutto lui. Afferrò per il collo il vecchio, con un'occhiata mi fece balzare sulla signora, l'afferrai le braccia e le tappai la bocca. Del dopo ho vaghi ricordi...andammo in stanza da letto, davanti la cassaforte, Steve intimò di dirgli il codice. Non so perché stuprò la signora Marmolata, non era attraente, non credo servisse a convincere quel taccagno a mollarci i suoi averi. Non ricordo gli spari e non ricordo neanche di espressioni di dolore o di grida. Ricordo del sangue sì..."
"Signor Borromeo...le ripeto...ci sono le impronta e le registrazioni delle telecamere di sicurezza. Chi è Steve? Dove è questo Steve, signor Borromeo? Ci sono solo le sue impronta cazzo, solo lei signor Borromeo, solo lei..."
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