Fu l’ultimo viaggio quello, l’ultimo a ritrovare odori e sapori dell’infanzia che iniziavano a diventare amari. Ad una manciata di ore dall’arrivo in stazione a Palermo ricevetti un sms. Lo zio Tano, scrisse parole piuttosto sconnesse ma che avevano un significato importante, che conoscevo, che temevo.
Una volta che ci sei dentro, è quasi impossibile uscirne. Sono grato allo zio Tano, devo esserlo. Se sono quello che sono lo devo sostanzialmente a lui, dopo un padre ammazzato per strada ed una madre alcolizzata che iniziò ben presto a cadere di braccia in braccia facendo diventare me lo zimbello del quartiere. Mi trovò per strada, a Brancaccio, lì dove la miseria si tocca con mano, lì dove la mafia è una cultura più che un’associazione. Lo zio Tano non ha mai comandato, non ha né la crudeltà né l’intelligenza per comandare, ma si è sempre fatto rispettare. Fosse nato in un altro angolo di mondo sarebbe stato un buono.
Sapevo già cosa avrei fatto. Maschere, fucili, assalto ad un portavalori. Per queste cose conta di più la fiducia fra i partecipanti all’assalto che l’istinto criminale, e difatti penso che nessuno dei tre lo abbia questo istinto. Non io, sicuramente no lo zio Tano, certamente neanche Pippo. Passai le ultime ore senza pensarci tanto, per nulla eccitato dalla prossima azione, neanche adirato per ritrovarmi nuovamente in mezzo.
Lo zio Tano iniziò ad offrirmi compensi per piccoli lavoretti. Ci si incontrava per strada, alla piazzetta dello spaccio dove dava le indicazioni ai ragazzetti poco più grandi di me. Mi disse lui di andar via, di cercare altro al nord, pagò lui il biglietto dell’espresso per andar via. Ma non sento di dovergli gratitudine, non credo che il suo sia stato effettivamente affetto nei miei confronti. Da un po’ ci sentiamo sempre meno al telefono, ci vediamo quando ritorno e spesso solo per questi lavoretti. Non lo faccio per arrotondare, lo faccio per fargli un favore, aiutarlo, lo faccio perché l’ho sempre fatto e certe cose non si scordano. Lo faccio perché mi chiamano, mi chiamano perché sono fidato e perché facilmente riesco a nascondere il mio accento siciliano. Ogni volta si fa un gran parlare di questi strani banditi che vengono dal nord fin qui in Sicilia a fare i loro assalti.
Arrivai in stazione in piazza Giulio Cesare. Prime luci del mattino come sempre, pochi passeggeri superstiti. La stazione si svuotò in fretta, cartoni valigie, sorrisi e abbracci lasciarono presto spazio alla luce fioca e qualche avanzo di vita a dormire su qualche panchina. Accesi la sigaretta e neanche spazientito attesi guardando il cielo che sembra avere sempre più stelle di quello torinese.
Non conosco bene la storia di Antonio. Lo zio Tano ne accenna sempre malvolentieri e in questo lembo di terra meno sai meno domandi, meno domandi meglio è. Ricordo il giorno che lo vidi per la prima volta, sorridente, pieno di vita, con le fossette sulle guance che trasmettevano tanta tenerezza. Mi sembrò come avere un fratello anche se non avevo mai dormito con lui sotto lo stesso tetto. Scoprì nello zio Tano un lato affettuoso, certo più affettuoso di come lo fosse mai stato con me ma ciò non ha mai suscitato invidia. Ho subito avuto un certo feeling col ragazzino. Calci al pallone, piccoli furtarelli al mercato, corse in spiaggia e docce alla fontana. Nonostante partì quasi subito per Torino, è rimasto sempre un certo rapporto intimo fra me e lui. Certo non mi aspettavo sarebbe diventato il mio figlioccio.
"Porca di quella puttana di Eva"
Sorrisi quando vidi Antonio abbracciato a quel borsone di fucili. Pippo aveva la solita aria spaesata, buon uomo senza macchia ne ingegno. Lo zio Tano invece aveva una luce negli occhi mai vista, sembrava quasi spaventato. Come se gli fosse scattata una scintilla, come se avesse avuto un’illuminazione, come un segnale che aspettava da tempo, come un’azione già meditata che doveva essere compiuta.
"Salvatore, riparti domani e lo porti con te. E'saltato tutto. Ritorniamo a casa".
Non protestai e l’indomani mattina ero di nuovo sull’espresso con una valigia e un ragazzino in più. Antonio non capì allora e penso che non abbia capito ancor oggi. Ha imparato presto a non far domande, a non voler capire tutto, a vivere senza pensarci troppo. Lo iscrissi a scuola, passava le sue giornate fra i banchi ad incominciare risse e la strada a concluderle. Mentre io ogni giorno andavo in fabbrica ad indossare la mia tuta blu e a guadagnarmi il mio compenso da cittadino onesto, lui si educava per strada facendo affaretti con i rumeni, scendendo a patti con i marocchini e firmando tregue con le gang di peruviani. Sempre di buon umore, sempre con il sorriso e quelle fossette sulle guance.
Da allora non siamo più andati in Sicilia, né abbiamo più rivisto lo zio Tano. Ogni tanto ci sentiamo per telefono, meglio si sente con Antonio. Non so di che parlino, che si raccontino. Penso che allo zio Tano basti sapere che ancora frequenta l’istituto professionale, che stia abbastanza lontano dai guai. Ogni tanto parliamo di Sicilia, litighiamo in dialetto, compriamo cannoli nella pasticceria dietro l’angolo. Abbiamo un pezzo di noi ancora laggiù, ma la nostra vita è ormai sotto questo cielo grigio, questi viali alberati, queste grandi piazze. Non saremmo felici ma siamo sereni.
“Turi, io vado in Sicilia!”
“Antò, che cazzo dici?”
Erano anni, tanti anni che non parlavamo di Sicilia…
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