sabato 26 giugno 2010

La foto - Parte prima

Quando vidi quella fotografia un tuffo al cuore annebbiò la mia vista.
Eravamo intorno al tavolo della cucina a casa di mia nonna in campagna. A pochi chilometri dal centro abitato sorgeva questo casolare bianco circondato da tanta terra rossa. Una pineta per concedersi la pennichella pomeridiana, tante finestre per scorgere in lontananza il mare ed un campo da tennis malandato trasformato in parcheggio. C’era persino un campo per giocare a bocce dove, con i miei cugini, nei pomeriggi di noia, ci alternavamo a lanciare il boccino. Una ripida scalinata all’entrata, dopo un lungo e tortuoso passatoio, annunciava il grande portone, quella che doveva essere l’entrata principale. In realtà, noi che eravamo di “casa” facevamo il giro del cortiletto ed entravamo sempre dalla parte di dietro salendo le scale interne che erano sicuramente meno faticose. Ricordo che un giorno mio cugino volle sfidarmi ad una gara di velocità per una salita e discesa consecutive delle scale principali fino ad arrivare con uno scatto finale al cancello, quindi fare tutto il passatoio di corsa. Mi viene in mente quella stupida gara ogni qual volta ammiro una simpatica cicatrice che rende stravagante il mio triste ginocchio.
“ti sei sbucciato ancora il ginocchio?”
Era questa la domanda classica che mi faceva mia nonna quando con un sonoro lamento aprivo la porta della cucina.
“si nonna però non lo dire a mamma”
Questa invece era la mia stupida risposta. Non so perché ma sentivo la necessità di nascondere le mie disgrazie a mia madre già da bambino. Quella volta della gara, però, caddi sotto i suoi occhi e quindi non riuscii a mentire. La medicina che usava mia nonna era l’olio. Non so perché ma sulle ferite di qualsiasi genere lei le condiva con olio e se la ferita era abbastanza profonda oltre all’olio mi toccava anche il limone(ancora oggi non ho capito il grado limite). Dopo ogni caduta il mio ginocchio era come una foglia di insalata. Sono questi i misteri che avvolgono la saggezza popolare e che dividono l’esperienza dalla teoria.
Quel pomeriggio di primavera il sole iniziava timidamente a riscaldare i freddi alberi della pineta. L’umido aveva reso l’aria all’interno del casolare irrespirabile e quindi decidemmo di pranzare fuori. Certo, il clima
non era proprio generoso ma noi bambini ci riscaldammo correndo dietro al pallone e i grandi con un bicchiere di vino rosso in più. Nonna preparò le orecchiette e le braciole per tutti, tipico pranzo domenicale ed io ero più coccolato del solito e non capivo il perché. Di solito, quando ci ritrovavamo in quelle occasioni, i miei zii apparecchiavano sempre due tavoli, uno per noi bambini e l’altro quello dei grandi. Fino a quel momento avevo vissuto il rito del passaggio del tavolo dai piccoli ai grandi sempre come un emozionato spettatore, quel giorno toccò a me. Non me l’aspettavo, non lo sapeva nessuno dei cugini. A differenza delle altre volte il cambiamento non fu dettato dal superamento delle scuole medie, avevo ancora dodici anni e mi toccava un ultimo anno seduto al tavolo piccolino. Quando contammo i posti ne mancava uno.
“mamma come mai c’è un posto in meno nel tavolo piccolino e uno in più vicino a zia?”
Queste furono le parole di mia cugina che allora aveva sei anni. Era quella che più di tutti gli altri ambiva a quel posto. La sua era una richiesta ossessiva, non voleva stare con noi perché facevamo le “schifezze”. Effettivamente anche noi ci mettevamo del nostro per far odiare quel tavolo. Le molliche di pane finivano sempre nei bicchieri a fine pasto per poi fare la gara del lancio più lontano nella terra. Mentre mangiavamo spesso e volentieri ci sfidavamo alla gara dei rutti. Ma la vera ragione che spingeva mia cugina a desiderare cosi tanto il tavolo dei grandi era l’accesso illimitato alla coca cola. Nel tavolo dei bambini ognuno aveva a disposizione due bicchieri di coca cola per tutto il pranzo, i grandi, invece, avevano a loro disposizione l’intera bottiglia fino ad esaurimento scorte.
“oggi uno di voi passerà di livello” disse zia guardando verso di noi.
“mamma ma nessuno sta facendo le scuole medie qui, neanche a settembre”
Aveva sei anni ma sapeva fare i conti meglio di tutti noi. Soprattutto se riguardavano i giri in moto con il padre, lo stare avanti in macchina, i cucchiaini di nutella da dividere tra di noi e il passaggio da un tavolo all’altro.
Quando arrivò il momento di sederci mio padre mi fissò e disse:
“oggi tu siedi qui. D’ora in poi il tuo posto è vicino a tua madre e tua cugina più grande.”
Quelle parole così tanto autoritarie non mi fecero vivere quel momento come avrei desiderato. Volevo aspettare anche io il mio turno e non mi pareva giusto nei confronti degli altri. Io, infondo, ero l’unico che preferiva il tavolo secondario. Era basso e quindi più comodo, potevo fare le “schifezze” che mi facevano divertire un casino e a me la coca cola non piaceva.
“papà ma non capisco. Voglio anche io aspettare il mio turno e finire prima le scuole medie.”
La mia reazione stupì tutti, persino mia nonna non si aspettava quelle parole.
“Andrea, è arrivato il momento che tu diventi grande anche senza finire le scuole medie”
Per un attimo pensai che improvvisamente potevo smettere di andare a scuola. Che quel passaggio per me era il cambiamento tanto desiderato, il signore aveva ascoltato le mie preghiere, babbo natale stava facendomi il regalo fuori stagione.
“ma allora non vado più a scuola?”
Una grassa risata generale ruppe la nuvoletta con i miei sogni che aleggiava sopra la mia testolina.
“non proprio, anzi dopo pranzo fai i compiti che non hai ancora fatto”
Mia madre non si faceva pregare quando c’era da cogliere la palla al balzo e parlare di scuola.
“mamma ma allora mi volete spiegare perché?”
Mia nonna mi prese sotto braccio e mi mostrò delle foto. C’erano due bambini sul lettone della sala dove dormiva lei. Non riconobbi subito quei visi ma una certa somiglianza fra loro mi fece venire un brivido.
“ecco Andrea, ora ti racconteremo una storia un po’ triste che ti interessa. Pensiamo che tu sia diventato abbastanza grande per poter capire.”
Quelle parole non fecero altro che aumentare quella sensazione sgradevole del brivido che percorreva veloce la mia schiena. Mi ritrovai con tre foto in mano e mia madre che piangeva mentre abbracciava mio padre.
“vedi questa foto, questo bambino qui sei tu”
Mi indicò la foto dei due bambini sdraiati nudi sul lettone. In quel momento il mio piccolo cervello iniziò a lavorare come mai prima e le mie mani a tremare. Gli occhi confusero le due sagome in un’unica figura che combaciava perfettamente. Quel bambino era la mia spiccicata fotocopia.
“quel bambino che è vicino a te si chiama Antonio ed è il tuo fratello gemello”

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