L’odore di disinfettanti e cibo da catering rimestato nella stanza mi da una strana sensazione di nausea. Ma col tempo ci si fa l’abitudine.
Come una moglie che ti fa le corna.Come un figlio che si ammazza di canne.
Ti ci abitui fino a respirarle, ad averle addosso come fossero tue. La luce biancastra riflette sulle pareti biancastre che fanno pendant con le lenzuola biancastre che si mimetizzano con i pigiami biancastri. Non fossi al settimo piano di un ospedale pubblico generico penserei di essere in un centro psichiatrico. Il nonno di fianco a me dorme. Ogni tanto scorreggia. Ogni tanto scoreggio io e gli do la colpa. Non vede e non sente più ormai. Ma a quanto pare l’intestino tenue gli funziona che è una meraviglia. E’ la notte del trentuno di dicembre, anno gregoriano 2008. Un giorno come tanti altri. Per gli infermieri che continuano a bucarmi il braccio di flebo ed il culo di cortisone. Per tutti i pazienti del reparto di oculistica e per tutti gli altri distesi nelle catacombe che vanno dal palazzo A al palazzo E di dieci piani ciascuno. Letti biancastri, pigiami biancastri tra pareti biancastre. Trentuno dicembre 2008, un giorno normale per tutti, ma non per me che sto progettando la mia evasione da questo posto.
Ho trascorso i giorni precedenti andando a zonzo tutta la notte. Perlustrando il perimetro, annotando gli orari degli infermieri, le loro abitudini, quando si addormentano e quando mi svegliano. Caterina trent’anni circa una mano fatata nel fare le iniezioni, un alito da formicaio in putrefazione. Giovanna passati i cinquanta da un pezzo, corpo mozzafiato macellaio delle flebo. John, pizzetto e fisico da culturista, probabilmente fanatico del movimento vegetarianesimo. Con la sua tutina verde ricorda tanto un cetriolo sgocciolato in una fogna.
…
Mi sveglio con un rimesto di alcol tra la lingua ed il palato, un infermiere mi prende di lato e mi infila una siringa in quella che per lui deve essere la natica dello sfogo nervoso represso. E’ il primo dell’anno, la maggior parte della gente vive i postumi di un capodanno passato chissà dove chissà con chi vomitando molto probabilmente nel proprio cesso di casa. E lui invece ha davanti il mio bel culone bianco da bucare. Sarà per questo che sento l’ago entrare dentro con una certa veemenza. Il suo labbro inferiore si cinge sui suoi baffi. Il liquido entra lentamente e a fine corsa lui tira fuori l’ago dal mio culo già arrossato. Sembra soddisfatto è un po’ più rilassato. Culo-terapia potreste chiamarla. Qualcosa scende lentamente nelle mie vene sgocciolando da una bottiglia rovesciata al contrario poco lontano dalla mia testa. Dovrebbe essere birra mi dice qualcuno.
E’ così il mio risveglio di primo dell’anno.
E’ così che mi riaddormento.
Apre gli occhi perché sento qualcosa che mi sta entrando nel naso. E’ il bocciolo di una siringa usata. Il mio compagno di stanza me la sta infilando per esprimermi il suo affetto nascente nei miei confronti. I miei occhi iniziano a lacrimare, piccole gocce di sangue scendono dalle narici. Io lo ringrazio, mi volto e continuo a dormire.
Apro gli occhi in una pozza di sudore. Un sudore che odora tanto di spumante. E birra. E vino. E vodka alla pesca e lemon soda. E rum e cola. E gin. E Dio solo sa cos’altro. Sembro la spugna riposta nel lavandino dietro il bancone di un bar. Strizzami pure e riempi i tuoi bicchieri del mio sudore. Guardo il mio telefono cellulare.
Ore 9.30.
Ma che cazzo, penso. E’ il primo dell’anno dovrei essere a dormire beatamente fino all’ora di pranzo come minimo cazzo. E invece sempre qui, tra letti biancastri, pareti biancastre, pigiami biancastri.
Sul tavolo di fianco a me trovo una piccola pillola rosa con su inciso FDL. Che negli ospedali pubblici possano spacciare dell’ecstasy mi pare alquanto difficile. Prendo la pillola tra le mani sporche di uno strano verde minestra di spinaci andata a male e la butto in bocca. Acqua. Ingoio. La camera è ferma. Immobile. Qualcuno gioca a carte nel tavolo giusto a ridosso del mio letto. Urlano, sembrano divertirsi, insultarsi. La cosa mi interessa e mi inebria a tal punto che per non cadere in tentazione richiudo gli occhi e dormo.
…
Sento l’infermiera lamentarsi dello schifo che c’è in camera. Bottiglie di spumante Brut. Dolce. Dodici bottiglie di birra rovesciate sul pavimento. E avanzi di cibo un po’ qua e la. Dice che questo non è modo di tenere una stanza di ospedale. Urla che siamo dei porci. Ed io nel frattempo cerco di afferrare una caccola con l’indice nella mia narice destra che ormai mi da pena da giorni. L’inserviente pulisce e spazza qua e la. Io le dico che è il primo dell’anno è che dovrebbe essere a casa e non qui a lavorare. Non avevo niente di meglio da fare così sono venuta. C’è gente che sfoga le proprie piccole schizofrenie quotidiane collezionando francobolli, chi masturbandosi sui volantini pubblicitari di intimo e chi con un overdose di lavoro. Il nonno di fianco a me fa una correggia. Sa di arrosto misto a piscio rancido. Pranzo di Natale per topi da scantinato. Trattengo un conato di vomito e mi volto dall’altro lato. Di fianco al mio letto tappi di birra, carte di siringhe usate, cotone zuppo di disinfettante e le mie scarpe da ginnastico. Vacca. Le mie scarpe da ginnastica sporca di terra. Terra e merda. Terra merda erba. Terra merda erba e qualcosa che ricorda un panettone vomitato in una pozza di fango. Chiudo gli occhi e deglutisco per evitare di inondare il mio letto col mio vomito. Mi è successo da bambino dopo una bottiglia di whisky bevuta per gioco. Cioè il gioco non era bere la bottiglia di whisky ma quale che fosse il gioco che c’era in ballo la bottiglia di whisky che avevo di fianco sorso dopo sorso era tutta nel mio sangue. La diagnosi era stato coma etilico, ma per me era stata solo una lunga e profonda dormita. Non per mia madre che quando mi ha visto sguazzare nel mio vomito ha dovuto chiamare il 118 d’urgenza. Una rockstar degli anni settanta. Senza chitarra. Senza vena artistica. Senza stile. Senza successo. Peccato non ricordare il primo viaggio in autoambulanza. Così penso al whisky. Ne sento il sapore sulla base della lingua misto a quello che devo aver mangiato al bar ieri. Mi volto nel letto. La scorreggia del nonno che mi sta di fianco ha formato una strana cappa, come etere, manganese e ferro. Mi gira la testa. Chiudo gli occhi. E vomito.
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